LO YOGA DELLA BHAGAVAD GĪTĀ
Una società che abbia per fine e massima espressione di felicità l'avere, e l'avere sempre di più, non può che allontanarsi dalla vera essenza della vita e piombare in uno stato di scontentezza ed alienazione. Inoltre l'attuale fenomeno di massiccio disinteresse per la religione, che finora aveva colmato, sia pure con lacune e mancanze, il bisogno di spiritualità delle passate generazioni, ha lasciato un vuoto, che l'uomo, nel suo innato bisogno di trascendenza ha tentato di colmare in qualche modo, a volte dibattendosi sprovveduto ed incerto per l'abitudine secolare di credere in una fede senza il minimo giudizio critico e senza conoscenza diretta ed approfondita dei testi sacri fondamentali. I motivi per cui si intraprende il cammino dello Yoga sono alquanto vari, diversi certamente per ogni individuo. Dei molti che lo intraprendono, pochi sono capaci di portarlo avanti con serietà, pochissimi lo accettano come sistema di vita, perché il percorso è alquanto difficile e spesso si ignorano o si tralasciano i precetti fondamentali. Lo Yoga non è una religione, ma è impregnato di religiosità e nello stesso tempo può costituire uno strumento atto a interiorizzare e personalizzare l'esperienza religiosa rivolta verso il Dio della propria tradizione. Il sentiero yogico ci propone una serie di cambiamenti interiori che possono costituire i punti di riferimento di una sincera “conversione” di vita. Quindi, poiché lo scopo prefisso è elevatissimo, è molto difficile raggiungerlo in breve tempo, sia pure nell'arco di una singola esistenza, se non da uno spirito molto progredito ed eccezionalmente tenace e dotato. Perciò è necessario intraprendere il cammino con pazienza ed umiltà, nelle forme che più ci sono consone: attraverso il Karma-mārga, il compimento del proprio dovere in modo disinteressato, il Jñāna-mārga, per mezzo dello studio e della conoscenza, il Bhakti-mārga, la devozione ed amore per Dio. Quest'ultima, rispetto alle precedenti, si propone come una “via di salvezza” nuova e più facile, dove la liberazione (mokṣa), diventa un bene accessibile a tutti, in particolare agli umili, agli emarginati, agli esclusi, a tutti coloro che nell'India dell'ideologia brahmanica ha relegato negli strati più bassi dell'ordine sociale. Le descrizioni e gli attributi di queste diverse vie (mārga), sono date in un libro meraviglioso ed antichissimo, la Bhagavad Gītā.
LA BHAGAVAD GĪTĀ, IL CANTO DEL GLORIOSO SIGNORE
Uno dei primi testi che parlano di Yoga in modo ampio e significativo è la Bhagavad Gītā. La Bhagavad Gītā è in sanscrito un sostantivo femminile che significa “Il canto del Bhagavat, o Bhagavān” (nelle lingue neoindiane), che si traduce solitamente con “Beato”, ma propriamente significa “Dotato di maestà e di splendore divino”. Potrebbe quindi essere riportato più esattamente con “Glorioso” o “Maestoso”. Nel “Canto del Glorioso Signore” lo Yoga non viene ancora trattato come metodo specifico, come avverrà nello Yoga Sūtra di Patañjali: il termine Yoga è invece genericamente utilizzato per individuare qualsiasi disciplina tesa a realizzare l'unione con l'Assoluto (uno dei significati etimologici della parola "Yoga" è proprio "unione"). Ed è proprio nell'articolazione delle diverse forme di Yoga che si trovano alcuni degli spunti più interessanti di questo testo. La Bhagavad Gītā è profondamente religiosa e teista: di tradizione vedāntica, trae le sue origini dalla letteratura mistica e rivelatoria delle Upaniṣad, dedicata a Viṣṇu o a una sua manifestazione. L'Assoluto viene identificato con Dio, che si manifesta al protagonista dell'opera, il guerriero Arjuna, nelle sembianze di Śrī Kṛṣṇa. Il poema rappresenta, senza ombra di dubbio, uno dei testi più sacri e straordinari, non solo della storia dell'India, ma dell’intera umanità. Esso è in grado di offrire la visione completa di Dio, a chi sappia abbandonarsi completamente ai fremiti di rivelazione che vengono esposti in questo testo. Ogni religione scaturisce dalle più alte necessità spirituali dell’uomo, e, ognuna d’esse, a prescindere dal luogo in cui nasce, indica Dio, e lo fa, cercandolo oltre il vasto mondo della forma, mentre lo considera, in un certo senso, separato da questa. La Bhagavad Gītā, capovolgendo i termini del rapporto, mostra Dio, strettamente identificato con la natura universale, e colma, così, ogni vuoto tra l’uomo e Sé Stesso. Il poema sacro, scritto in sanscrito, diviso in 18 canti per un totale di circa 700 śloka o quartine di ottonari, occupa i capitoli dal 25 al 42 del VI libro (Bhīṣma parvam) del Mahābhārata, “il grande poema del popolo indiano”, e ci riporta l’insegnamento, una sorta di “Vangelo”, di Śrī Kṛṣṇa. La Gītā non ha autore o perlomeno l’autore tradizionale è Vyāsa (da non confondere con il Vyāsa commentatore dello Yoga Sūtra), colui che avrebbe composto tutta quell’immensa saga del popolo indiano che è il Mahābhārata. È stato composto sembra intorno al III-II secolo a.C. Tuttavia, gli avvenimenti storici con i quali si confronta si situano in epoca più antica, in quanto la grande guerra descritta dalla Bhagavad Gītā avvenne in una data che la critica moderna fissa nell'XI secolo a.C. Tuttavia, forse, non importa molto cercare dei riferimenti realmente accaduti, ma quel che conta è il senso che pervade il simbolismo del testo. La guerra di cui tratta, nel sacro campo di Kurukṣetra, vede lo schieramento di due eserciti, quello dei Pāṇḍava e quello dei Kurava, una guerra fratricida che si tradurrà in un grande massacro tra due fazioni interne della stessa famiglia regnante, con il dubbio del campione dei Pāṇḍava, Arjuna, il quale prova ripugnanza a combattere contro persone che gli sono care e che egli stima. Arjuna s’identifica con il forte impatto che l’animo di ognuno di noi risente, quando s’immerge nel livello del vissuto quotidiano. Non esiste un solo versetto che non possa e debba essere applicato a ciascuna delle contingenze che incontriamo nella vita. La Gītā tratta principalmente di tre vie di liberazione: Karma-Yoga, la via del servizio e dell'azione disinteressata, Jñāna-Yoga, la via della saggezza o conoscenza e Bhakti-Yoga, la via della devozione. Nella Bhagavad Gītā il Karma-Yoga è la via dell'azione dello yogin, ciò che Kṛṣṇa chiama svadharma, “il proprio dovere” di Arjuna. Jñāna-Yoga significa meditazione, o via della saggezza, molto più di quanto non lo fosse nelle Upaniṣad. Attraverso questo tipo di Yoga, si cerca di discernere tra ciò che è reale e ciò che non lo è, col fine di tentare di separare l'Io dal non Io. Miscelando i principi del Karma-Yoga (azione) e Jñāna-Yoga (conoscenza), la Bhagavad Gītā insegnava che lo yogin non deve mai farsi condizionare dalle conseguenze delle sue azioni. Ciò che contava per Arjuna, non era che vincesse o perdesse una battaglia, ma che adempisse semplicemente al suo dovere, il suo svadharma, per poi offrire i frutti delle sue azioni a Kṛṣṇa, il suo Signore. In questo modo, lo svadharma di Arjuna divenne una forma di sacrificio interiore. La Bhagavad Gītā dedicò molti dei suoi ultimi capitoli al Bhakti-Yoga, la via della devozione, in particolare devozione allo stesso Kṛṣṇa, nel quale possiamo ritrovare il concetto di Īśvara praṇidhāna. Mentre uno yogin poteva raggiungere la liberazione attraverso ciò che la Gītā definiva “azione disinteressata”, Arjuna poté raggiungere uno stato di consapevolezza ancora più elevato adorando Kṛṣṇa. Kṛṣṇa, nella mitologia dell'induismo è uno degli Avātara, o incarnazione, del Dio Viṣṇu, ma per molti devoti semplicemente il Dio supremo e Salvatore universale. Il significato letterale del nome Kṛṣṇa deriva dalla radice “Kṛṣ” che esprime l'Esistenza, il Tutto-attraente, e la parola “-na” che esprime l'enstàsi suprema. La combinazione delle due dà il nome Kṛṣṇa, indicante il Parama-Brahman, la Suprema Verità Assoluta, il Dio Supremo. Kṛṣṇa, quindi, appare il protagonista della lezione di vita, della dottrina vedāntica dell'ātman, “-colui che pensa che sia esso ad uccidere e colui che pensa sia esso ad essere ucciso, sono tutti e due in errore, perché esso non uccide né è ucciso”; “-esso non nasce mai, né mai muore, né, essendo ciò che è venuto ad essere, di nuovo cesserà di essere; è non-nato, eterno, permanente, originario; non è ucciso, quando il corpo è ucciso” (II.19-20), tutto ciò non è che un'apparenza vana, e che, lungo l’intero arco dell’opera, Egli enuncia ad Arjuna, il suo discepolo. Kṛṣṇa, l’Incarnazione medesima di Dio è identificabile con il nostro “Io” più profondo ed immortale, che si rivolge alla propria ombra, la personalità, immersa nelle offuscate spire dei livelli incarnativi. Nello Yoga della Bhagavad Gītā troviamo la testimonianza dell’avvenuta sovrapposizione di due visioni della realtà, una non dualistica e vedāntica e una che è propria dello Yoga e che ha i suoi fondamenti teoretici nel Sāṁkhya. Nel “Vangelo” hindū, quindi, vengono bilanciati e fusi i due poli della ricerca soggettiva umana: il monismo e il dualismo. I due sistemi sono collegati, e per questo si può dire che lo Yoga è un sistema dualista, che contempla due realtà: lo spirito (puruṣa) e la natura (prakṛti). Quest’ultima è definita come unica, complessa e attiva; da essa derivano tutti i fenomeni psichici e fisici: la nostra mente, la nostra ragione, l’intelletto, il senso dell’io, gli organi di percezione sensoriale, gli organi di azione, e poi il corpo fisico, costituito dagli elementi “grossolani”, che sono i quattro elementi di Empedocle1, che, nel mondo indiano, diventano cinque, con l’aggiunta dell’elemento “spazio” (ākāśa). La Bhagavad Gītā capitolo XIV, insegna anche che i guṇa venivano dalla natura, ma riteneva che la loro esistenza legasse gli esseri umani ad un corpo particolare. Il sattva, per esempio, indicava bontà e pura essenza. La Bhagavad Gītā prevedeva che una natura sattvica fosse “illuminante” ed “immacolata”. Lo svantaggio di possedere tale natura era che lo yogin poteva affezionarsi molto facilmente alle piacevoli sensazioni che produceva. Una natura rajasica invece, significava, per la Gītā, essere legati all'azione. L'energia del rajas è dinamica, appassionata. Le ultime Upaniṣad associarono al rajas il significato di cupidigia, lussuria, desiderio, possessività, passione ed attaccamento ai beni materiali. Il tamas venne identificato come un ostacolo che legava lo yogin ad una vita contrassegnata dall'indolenza, dalla noncuranza e dall'avvilimento. Secondo la Gītā quindi, con il duro lavoro (Karma- Yoga - “Anche gli yoginaḥ che lottano lo percepiscono come avente sede nel sé, ma quelli che non intendono, i cui spiriti non hanno raggiunto l'equilibrio (non sono formati), per quanto lottino, non riescono a vederlo” XV.11) e la profonda meditazione (Jñāna-Yoga - “Coloro che hanno l'animo smarrito non vedono Lui che se ne va, che resta, che fruisce dei guṇa, venendo in contatto con essi; ma lo vedono coloro che hanno l'occhio della conoscenza” XV.10), si può liberare l'uomo dalle sue sofferenze e condurlo alla liberazione. Nella Bhagavad Gītā capitolo I e II, “tutto è solo dolore per il saggio” così come nello Yoga Sūtra II,15 “in realtà, per il saggio (vivekin) tutto è dolore (duḥkha), a causa della sofferenza provocata dal cambiamento (pariṇāma), dall'angoscia (tāpa), dai saṁskāra e dall'attività dei guṇa che si contrastano reciprocamente”, in cui si propone lo Yoga come efficace strumento per contrastare il dolore futuro, sfuggendo alle catene del saṃsāra grazie alla conquista di quel completo isolamento (kaivalya) che coincide con il raccoglimento perfetto (samādhi), fatto di pura consapevolezza del Sé, nel quale il soggetto cosciente fa l'esperienza della suprema quiete, riposando nella sua essenza (Yoga Sūtra I.3 e IV.34). La Gītā insegna quindi l'azione divina, non l'umana, non l'adempimento dei doveri sociali, ma l'abbandono di ogni principio di condotta o di dovere a favore di un adempimento non egoistico della volontà divina operante nel mondo mediante la nostra natura, non un servizio sociale, ma l'azione dei migliori, di coloro che sono posseduti da Dio, degli uomini padroni di sé stessi. Azione compiuta impersonalmente per l'amore del mondo e in sacrificio a Colui che sta dietro all'uomo ed alla natura. La Verità non è un dogma che si possa apprendere una volta per tutte ed imporre come una regola. La Verità è infinita come il Signore Supremo, ed essa si manifesta in ogni istante a coloro che sono sinceri ed attenti. Come il nostro organismo fisico è composto da miliardi di miliardi di vite infinitesimali, le cellule, così ogni individuo è onda di un Infinito Mare Universale, la cui ampia Coscienza è parte intrinseca e vitale. Questa Coscienza parla nella Bhagavad Gītā, ed attrae nel suo vortice di infuocato amore il proprio minore riflesso esistenziale: Arjuna. “Colui il cui sé è unito al Sé mediante lo Yoga, vede il Sé presente in tutte le creature e tutte le creature nel Sé; egli vede tutto con l'occhio dell'equanimità.” (VI.29) Quindi, oltre a rivelare il “supremo segreto”, sepolto sotto la coltre degli irriducibili veli di māyā, Kṛṣṇa, la Vita Universale, fatta Verbo, indica ad Arjuna, attraverso i 18 capitoli della Bhagavad Gītā, le tecniche mistiche (Yoga) per liberarsi definitivamente dal ciclo delle nascite e delle morti (saṃsāra) ed ottenere la liberazione (mokṣa). Ad Arjuna viene inoltre spiegata l'importanza dell'azione senza attaccamento al risultato e viene descritto il Bhakti Yoga l'unione con Dio attraverso l'amore e la devozione, Īśvara praṇidhāna: “Mediante la devozione (Bhakti) egli conosce la Mia unica realtà (chi Io sono), la Mia molteplicità (quanto Io sono) e i Miei princìpi; conoscendoMi nei Miei princìpi, entra immediatamente (subito dopo) in Me.” (XVIII. 55). Al Bhakti-Yoga è dedicato il XII° capitolo della Bhagavad Gītā, nel quale si afferma:“E coloro che, pieni di fede, seguono il dharma d'immortalità qui insegnato e fanno di Me il loro scopo supremo, quei devoti Mi sono cari in modo particolare, Io li considero i perfetti conoscitori dello Yoga.”(XII. 20) Sta di fatto che molti tra coloro che giungono sulle incantevoli sponde del sacro Testo vengono benedetti dalla rivelazione che questo episodio della loro vita fa proprio parte di quell’azione incessante che l’Anima delle cose rivolge agli infiniti aspetti del Suo cosmico organismo, per riassorbirli a Sé. Chi è predestinato riconosce, senza ombra di dubbio, la “Voce del Silenzio”, nel suo cuore, mentre emerge dai versi del “Vangelo” Indù.
La Voce del Silenzio
“Nel centro del mio cuore ho eretto un mistico trono per Te. Le candele delle mie gioie ardono fiocamente nell'attesa della Tua venuta. Esse si ravviveranno al Tuo apparire. Ma che Tu venga o no, io rimarrò ad aspettarTi finché le mie lacrime non avranno dissolto ogni pesantezza e opacità. Profumate d'amore, nell'attesa le mie lacrime laveranno i tuoi piedi pieni di silenzio. L'altare della mia anima rimarrà sgombro fino alla Tua venuta. Io non parlerò; non Ti chiederò nulla. In silenzio vivrò l'intima consapevolezza che Tu conosci la pena del mio cuore mentre rimango in attesa di Te. Tu sai che io prego; sai che amo Te solo. Ma che Tu venga o no, rimarrò ad aspettarTi, fosse pure per l'eternità.” (Paramhaṃsa Yogananda)
Bibliografia: tratta dalla mia tesi ISFIY 2004-2008 "Isvara pranidhana: l'abbandono al Signore"