ALFABETO SANSCRITO

 

SAṂSKṚTA, LINGUA E LETTERATURA

Nella famiglia delle lingue indoeuropee, un posto di primaria importanza spetta al sanscrito, lingua dotta di un'antica e illustre civiltà quale l'indiana, nonché tramite di una letteratura vastissima, di alta qualità letteraria, profondità filosofica, intensità religiosa. La parola saṃskṛta significa «perfetto» e fino a pochi decenni fa gli studiosi erano addirittura persuasi, vista la perfezione formale del sistema fonetico e la precisione grammaticale, che il sanscrito dovesse essere la lingua che più di ogni altra avesse conservato la struttura dell'originaria parlata proto-indoeuropea. Oggi questo giudizio è alquanto ridimensionato, nondimeno il sanscrito riveste tuttora un'importanza capitale per il linguista, il filologo, lo storico delle religioni, il letterato e il filosofo.

Gli studiosi dividono la storia del sanscrito in varie fasi. La forma più antica è il vedico, la lingua degli inni dei Veda, che risalgono al 1000 a.C. circa. Questa lingua, regolata dall'uso dei brāhmani, raggiunse la forma definitiva nella fase del sanscrito classico, allorché fu codificata dal grammatico Pāṇini (IV sec. a.C.), autore dell'Asthādhyāyī, un trattato di linguistica descrittiva in otto libri, scritto interamente sotto forma di proposizioni logiche che conseguono l'una dalle altre tramite una sapiente applicazione di metaregole, trasformazioni e leggi ricorsive; un lavoro considerato precursore dei linguaggi formali e della moderna grammatica generativa. In sanscrito classico sono redatte le grandi epiche del Mahābhārata e del Rāmāyaṇa (III sec. a.C.), i drammi di Kālidāsa (IV sec.), il Pañcatantra e l'intera letteratura filosofica. Il sanscrito tuttavia non fu mai lingua di un paese o di una regione, ma piuttosto la lingua usata da alcune caste, soprattutto i brāhmani e gli kṣatriya. Quale lingua «perfetta», il sanscrito veniva distinto dal pracrito [prākṛta], l'insieme delle lingue «naturali» parlate dalle caste incolte.

Ancora oggi, il sanscrito è la lingua dotta e letteraria dell'India e continua a produrre una letteratura non indifferente.

Nel corso dei secoli, dai vari dialetti pracriti si svilupparono le lingue volgari dell'india, i cui più antichi documenti epigrafici sono le iscrizioni di re Aśoka (250 a.C.). Il principale di questi dialetti fu la pāli, la lingua in cui venne redatto il canone buddhista della scuola Theravāda nonché lingua della religione jainista. Dal pracrito sono derivate le attuali lingue indiane, anch'esse ricche di letteratura, quali l'hindī, l'urdū, la bengalī, la panjābī, la gujarātī, la sindhī, la marāthī e molte altre.

DEVANĀGARĪ. LA SCRITTURA

La devanāgarī, la scrittura della «città degli dèi», è la più importante delle molte scritture indiane. Come molte altre scritture del subcontinente, la devanāgarī è derivata dalla brāhmī, un adattamento indiano di un alfabeto semitico (forse l'aramaico) penetrato in India attraverso la Mesopotamia, probabilmente intorno al 700 a.C. La scrittura devanāgarī fu usata dapprima per scopi commerciali e solo in seguito applicata alle trascrizioni dei testi sacri, raggiungendo l'attuale aspetto non prima dell'VIII secolo. Scrittura classica del sanscrito, oggi la devanāgarī è ancora utilizzata per la lingua hindī, la marāthī e la nepalī; e, accessoriamente, per diversi altri linguaggi dell'India.

Assai eleganti, splendidamente incurvate, le lettere devanāgarī hanno la singolarità di essere «appese» sotto il rigo, dando alla scrittura sanscrita la sua particolare caratteristica e fisionomia.

 

 

अ आ इ ई उ ऊ ऋ ॠ ऌ ॡ
ए ऐ ओ औ
क ख ग घ ङ
च छ ज झ ञ
ट ठ ड ढ ण
त थ द ध न
प फ ब भ म
य र ल व
श ष स

 Tecnicamente, la devanāgarī è un alfasillabario: sebbene possano anche apparire separate, consonanti e vocali vengono di regola congiunte in legature grafiche di cui l'unità fondamentale non è il singola fonema, bensì la sillaba [akṣara]. Questa è sempre intesa come accumulo di una o più consonanti terminante in una vocale o in un dittongo.

Al contrario dell'alfabeto latino, in cui consonanti e vocali seguono una successione casuale, l'alfasillabario devanāgarī dispone le lettere secondo precisi criteri fonologici. Inizia con le vocali, seguono i dittonghi, quindi le consonanti. Ogni gruppo è a sua volta ordinato in cinque «posizioni» [sthāna], secondo la successione del punto di articolazione, dalla gola alle labbra:

  • kaṇṭhya, «gutturali», ritenuti prodotti in gola (si tratta in realtà dei suoni velari, articolati all'altezza del velo palatino);
  • tālavya, «palatali» (appunto, i suoni palatali);
  • mūrḍhanya, «cerebrali» (i suoni retroflessi o cacuminali, articolati tra il palato e gli alveoli);
  • dantya, «dentali» (i suoni dentali e alveolari);
  • oṣṭhya, «labiali» (i suoni labiali e labiodentali).

Questa disposizione è chiamata varṇamālā, la «ghirlanda delle lettere», ed ha fornito il modello per la successione dei segni in molte altre scritture asiatiche, non soltanto indiane.

Nel seguito, segnaliamo tra virgolette («») i termini utilizzati nella classificazione tradizionale sanscrita.

SVARA. LE VOCALI

 

Le vocali sono definite in sanscrito con il termine svara, «suono, tono, accento». I suoni definiti a «sillaba omogenea» [samānākṣara] sono cinque, a i u più  e  sillabiche. Queste ultime due lettere sono indicate in traslitterazione con un puntino posto sotto il corpo della lettera:

a i u

Le vocali possono essere sia brevi [hrasva] che lunghe [dīrgha]. In traslitterazione, le lunghe sono distinte da un macron:

ā ī ū

La differenza tra i due gruppi sta nella durata: l'emissione delle brevi dura una battuta [mātrā], quelle delle lunghe, due battute. Il vedico conosceva anche una terza classe, quella delle vocali prolungate [pluta], destinate a durare tre o più battute. Rare in sanscrito classico, esse sono contrassegnate, in traslitterazione, da un apice 3. Di esse non si parlerà oltre.

ṛ³ ḷ³

Le vocali definiscono anche le cinque «posizioni» [sthāna] secondo la fonologia tradizionale sanscrita:

kaṇṭhya, «gutturali» a ā
tālavya, «palatali» i ī
oṣṭhya, «labiali» u ū
mūrḍhanya, «cerebrali»
dantya, «dentali»

Nella scrittura devanāgarī, le vocali hanno due forme, una iniziale, più elaborata, e una seconda, più semplice, da usarsi allorché la vocale è articolata a una consonante.

 

 

VOCALI (svara)
Forma
iniziale
Forma
articolata
Traslitt. Nome
lettera
Pronuncia

Descrizione

  a a [ʌ] Vocale posteriore medioaperta distesa breve
Inglese "but"
ā ā [aː] Vocale anteriore aperta distesa lunga
Italiano "ballare"
ि i i [i] Vocale anteriore chiusa distesa breve
Italiano "ritiro"
ī ī [iː] Vocale anteriore chiusa distesa lunga
Italiano "ritiro"
u u [u] Vocale posteriore chiusa arrotondata breve
Italiano "futuro"
ū ū [uː] Vocale posteriore chiusa arrotondata lunga
Italiano "futuro"
[r̩] Vibrante alveolare sillabica breve
Ceco "Brno"
[r̩ː] Vibrante alveolare sillabica lunga
 
[l̩] Laterale alveolare sillabica breve
Ceco "vlk"; inglese "little"
[l̩ː] Laterale alveolare sillabica lunga

 «Sillabe omogenee» [samānākṣara]

Kaṇṭhya, «gutturale»
   
  a ā  

I grammatici indiani considerano /a(ː)/ come il suono più semplice e fondamentale della fonologia sanscrita, emesso con la gola e la bocca aperte, la lingua rilassata, le corde vocali vibranti. È probabilmente questa la ragione per cui hanno classificato la vocale come una «gutturale», articolata in gola. Ma questo è vero solo a metà in quanto ā presentano, in sanscrito, una differenza di colore. Mentre la lunga, ā, è anteriore, e si pronuncia limpida e aperta come la a tonica dell'italiano [aː], la breve è effettivamente una vocale posteriore, e viene pronunciata chiusa [ʌ], come la u nell'inglese but. Questa perdita di colore è molto arcaica: è già presente all'epoca di Pāṇini, che la definisce saṃvṛta «copertura».

Ancora oggi, in hindī, breve diviene muta [ə] alla fine della parola e in certune posizioni.

Tālavya, «palatale».
   
  i ī  

Secondo i grammatici sanscriti, la vocale /i(ː)/ si produce da un'alterazione di /a(ː)/, ottenuta sollevando la lingua verso il palato e distendendo gli angoli della bocca verso l'esterno. Essa ha il suono della i italiana [i]. Le lettere i ed ī si distinguono nella durata, pronunciandosi rispettivamente breve [i] e lunga [iː].

Oṣṭhya, «labiale»
   
  u ū  

Anche la vocale /u(ː)/, secondo i grammatici indiani, si produce da un'alterazione di /a(ː)/, con le labbra che si protrudono e si arrotondano. Questa è la ragione per cui la fonologia sanscrita definisce /u(ː)/ una «labiale», mentre in realtà è una vocale posteriore, seppure labializzata (da pronunciarsi cioè con arrotondamento delle labbra). Detto questo, u e ū vanno pronunciate esattamente come la u italiana, breve [u] e lunga [uː].

Il sistema che si ottiene è il seguente:

  a  
     

u

  i

Le ultime due vocali,  ed , sono delle consonanti liquide utilizzate come apice sillabico, cioè come vere e proprie vocali. Suoni di questo tipo sono comuni nelle lingue slave, ad esempio in ceco, dove troviamo parole come vlk [vl̩k] «lupo» e prst [pr̩st] «dito», che portano rispettivamente l'accento sulla l e sulla r. Il nome della città di Brno ['br̩no] sarà più familiare, soprattutto agli appassionati di motocross. Anche la pronuncia inglese della parola little ['litl̩] può dare un'ottima idea di una consonante liquida con funzione di apice sillabico.

Mūrḍhanya «cerebrale»
   
   

I grammatici indiani fanno derivare la vocale /r̩(ː)/ da un'alterazione di /i(ː)/, nella quale la lingua viene portata in avanti, contro la parte superiore degli alveoli e fatta vibrare. Tuttavia, a dispetto della classificazione tradizionale sanscrita, che la considera una «cerebrale», / non è una vibrante retroflessa [ɽ], ma alveolare [r], come nell'italiano rana, con funzione di apice sillabico [r̩]. Oggi viene pronunciata [ɾɪ] nell'hindī, o [ɾu] nella marāthī, e in effetti sembra che l'effettiva pronuncia del sanscrito comprendesse delle lievissime colorazioni in i e u. Ci atteniamo qui, però, alla pronuncia «corretta» [r̩] secondo l'ideale fonologia sanscrita.

Dantya, «dentale»
   
   

In modo analogo, i grammatici indiani fanno derivare /l̩(ː)/ da un'analoga alterazione di /i(ː)/, nella quale la lingua viene portata dal palato verso i denti. Classificata abbastanza correttamente come «dentale», / corrisponde alla laterale alveolare [l] dell'italiano luna, ovviamente impiegata come apice sillabico [l̩]. Suono molto raro, lo ritroviamo unicamente nella radice del verbo kḷp «essere ordinato, essere adatto, avere successo». La variante lunga  non è neppure contemplata nella fonologia sanscrita. Inserita nel varṇamālā semplicemente per mantenere una certa simmetria nel rapporto tra vocali brevi e lunghe, compare unicamente nei lavori di alcuni grammatici e lessicografi.

  a      
         

u

  i  
         
   

 

Le vocali , ed  sono specifiche del sanscrito e non sono incluse nel varṇamālā di altri linguaggi.

Lezione Traslitterazione Pronuncia Traduzione
वतार avatāra [ʌʋat̪ʌːɽʌ] incarnazione di una divinità
त्मन् ātman [t̪mʌn̪]

anima, spirito vitale

न्दिरा indirā [ind̪iɽaː] splendore
श्वर īśvara [ʃʋʌɽʌ] signore
ष्ण uṣṇa [uʂɳʌ] calore
र्मि ūrmi [ɽmi] onda
ग्वोद gveda [gʋeːd̪ʌ] veda degli inni
[]

montagna

 

SAṂDHYAKṢARA. I DITTONGHI

 

Alle vocali seguono, nell'ordine alfabetico, i dittonghi, in numero di quattro, definiti in sanscrito come suoni a «sillaba composta» [saṃdhyakṣara]. Per quanto alcuni testi li suddividano erroneamente in brevi e lunghi, i dittonghi sono tutti lunghi. I grammatici sanscriti li dividono piuttosto in guṇa e vṛddhi, due termini tratti dai registri della filosofia e della religione. In particolare, guṇa indica la corda dell'arco o degli strumenti musicali, ma significa anche «elemento secondario»; vṛddhi vuol dire invece «crescita, avanzamento». Si può dunque parlare di suoni «secondari» o suoni «avanzati».

I dittonghi guṇa sono pronunciati e traslitterati come semplici vocali:

e o

I dittonghi vṛddhi mostrano invece, in traslitterazione e pronuncia, la loro natura:

ai au

Correttamente, i grammatici indiani classificano le loro «posizioni» [sthāna] come composizione di quelle delle singole vocali:

  guṇa vṛddhi
kaṇṭhatālavya, «palato-gutturali» e ai
kaṇṭhoṣṭhya, «labio-gutturali» o au
DITTONGHI
Forma
iniziale
Forma
articolata
Traslitt. Nome
lettera
Pronuncia

Descrizione

e e [eː] Vocale anteriore mediochiusa distesa lunga
Italiano "tenere"
ai ai [aː] Dittongo
Italiano "mai"
o o [oː] Vocale posteriore mediochiusa arrotondata lunga
Italiano "colore"
au au [aː] Dittongo
Italiano "aula"

«Sillabe composte» [saṃdhyakṣara]

I dittonghi guṇa e e o sono da pronunciarsi come [eː] e [oː] lunghe. La ragione per cui in traslitterazione non vengono segnalate col macron, è che, mancando in sanscrito [e] ed [o] brevi, non vi è alcun rischio di ambiguità.

I dittonghi vṛddhi ai e au si pronunciano invece con la prima vocale lunga e la seconda atona: [aː] e [aː], cioè come nelle parole italiane mai e aula.

Ci si può stupire del fatto che in sanscrito le vocali e ed o siano considerate dei dittonghi, alla stregua di ai e au. La ragione risiede in una serie di interessanti interpretazioni effettuate dai grammatici sanscriti nella classificazione dei suoni. Ma vediamo nei dettagli le due coppie guṇa/vṛddhi.

Kaṇṭhatālavya, «palato-gutturali»
   
  e ai  

Abbiamo visto che, nell'interpretazione dei grammatici indiani, la vocale «palatale» /i/ deriva dalla «gutturale» /a/. Tuttavia, nel corso del passaggio da /a/ ad /i/, l'apparato fonatorio si situa un certo punto nella posizione di /e/. Questa è la ragione per cui il dittongo guṇa e [eː] viene considerata una combinazione tra a e i. Il dittongo vṛddhi ai [aː] lo si ritiene invece prodotto dall'incontro di a ed e.

    ai    
     
a e i

Stessa cosa per l'altra coppia guṇa/vṛddhi:

Kaṇṭhoṣṭhya, «labio-gutturali»
   
  o au  

Si ricordi che, nell'interpretazione dei grammatici indiani, la vocale «labiale» /u/ deriva dalla «gutturale» /a/. Anche qui, nel corso del passaggio da /a/ ad /u/, l'apparato fonatorio si situa a un certo nella posizione di /o/. Ecco dunque che il dittongo guṇa o [oː] viene considerato una combinazione tra a e u. Il dittongo vṛddhi au [aː] lo si ritiene prodotto dall'incontro di a ed o.

    au    
     
a o u

Queste teorie fonologiche trovano la loro giustificazione nel fenomeno dell'apofonia, i regolari mutamenti vocalici [ablaut] che ricorrono nelle lingue indoeuropee. Rilevata da Jakob Grimm per le lingue germaniche nel  secolo, l'apofonia era già stata studiata da Pāṇini per il sanscrito più di duemila anni prima. Quest'ultimo definiva appunto come mutazioni guṇa e vṛddhi i regolari e frequenti cambiamenti vocalici che occorrevano nel corso delle inflessioni e delle flessioni delle parole. Sono i due gradi che in linguistica sono oggi chiamati «grado pieno» e «grado lungo».

Un dittongo guṇa differisce dalla corrispondente vocale semplice per la presenza di una vocale a- ad essa prefissa. Un dittongo vṛddhi è invece caratterizzato da un'ulteriore vocale a- prefissa al dittongo guṇa. Così, il corrispondente dittongo guṇa di i/ī , è e (in quanto incontro di a ed i). Invece, il corrispondente vṛddhi è ai (in quanto incontro di a ed e).

Ne sortisce uno schema di questo tipo:

Vocale   guṇa   vṛddhi
ā
e āi
o āu
ar ār
al āl

Schema piuttosto interessante, in quanto riflette questioni di linguistica storica. Si ritiene infatti che le vocali sanscrite e [eː] ed o [oː] siano effettivamente derivate da due antichi dittonghi indoeuropei pronunciati [a] ed [a].

Lezione Traslitterazione Pronuncia Traduzione
eka [kʌ]

uno

aidha [aːd̪ʱʌ]

fiamma

oka [kʌ] casa
दार्य audārya [aːd̪aːɽjʌ] nobiltà

 

VYAÑJANA. LE CONSONANTI

 

Il nome sanscrito delle consonanti è vyañjana, «che indicano», «che manifestano», e vengono anch'esse ordinate in un sistema mirabilmente preciso ed elegante. I grammatici indiani le hanno suddivise in tre gruppi, ciascuna delle quali presenta a sua volta distinzioni ricorrenti e simmetriche:

  1. sparśa, «a contatto» (le nostre occlusive e nasali);
  2. antaḥstha, «intermedie» (le nostre approssimanti, o semivocali);
  3. ūṣman, con «fiato», o saṃghashrī, con «sfregamento» (le nostre fricative).

Le consonanti sparśa «a contatto» sono chiamate così perché i grammatici indiani le ritengono prodotte da un «contatto», cioè da una chiusura, degli organi che le producono. L'analisi è peraltro corretta e anche oggi definiamo queste consonanti come «occlusive». A loro volta, le consonanti sparśa vengono distinte in cinque classi [varga], secondo le cinque «posizioni» [sthāna] riconosciute dalla fonologia sanscrita: «gutturali» [kaṇṭhya], «palatali» [tālavya], «cerebrali» [mūrḍhanya], «dentali» [dantya] e «labiali» [oṣṭhya] (e cioè velari, palatali, retroflesse, dentali/alveolari e labiali/bilabiali).

Ogni singola classe delle sparśa è regolarmente formata da una successione regolare di cinque consonanti: due «atone» [aghoṣa], due «toniche» [ghoṣa o ghoṣavant] e una «nasale» [anunāsika]. Sia la coppia «atona» che la coppia «tonica» sono a sua volta costituite da una consonante «di breve respiro» [alpaprāṇa] e una «di ampio respiro» [mahāprāṇa]. In sintesi, secondo la nostra terminologia, ogni quintetto è formato da una consonante sorda, una sorda aspirata, una sonora, una sonora aspirata e una nasale:

kaṇṭhya, «gutturali» k kh g gh ka-varga
tālavya, «palatali» c ch j jh ñ ca-varga
mūrḍhanya, «cerebrali» ṭh ḍh ṭa-varga
dantya, «dentali» t th d dh n ta-varga
oṣṭhya, «labiali» p ph b bh m pa-varga

I nomi delle cinque classi [varga] derivano dalla prima consonante di ciascuna: ka-varga, ca-varga, etc.

La serie successiva comprende le quattro consonanti «intermedie» [antaḥstha], grossomodo corrispondenti a quelle che noi chiamiamo semivocali o approssimanti:

tālavya, «palatali» y
mūrḍhanya, «cerebrali» r
dantya, «dentali» l
oṣṭhya, «labiali» v

L'ultima serie è quelle delle consonanti definite ūṣman (prodotte con passaggio di «vapore, fiato»), o saṃghashrī (con «attrito» o «frizione»), così definite perché pronunciate facendo passare l'aria attraverso l'apparato fonatorio (al contrario delle sparśa, prodotte invece per contatto completo). L'odierno termine di «fricative» ha lo stesso significato del termine sanscrito. Anch'esse sono ordinate secondo le «posizioni» [sthāna] articolatorie. Sono tre alpaprāṇa, a «breve respiro»:

tālavya, «palatali» ś  
mūrḍhanya, «cerebrali»  
dantya, «dentali» s  

Ed una mahāprāṇa, di «vasto respiro»:

kaṇṭhya, «gutturali» h

Ma ecco uno schema generale del sistema consonantico del sanscrito:

 

DIACRITICO
Lezione Traslitt. Nome
lettera
Pronuncia

Descrizione

: visarga [h] Fricativa glottale sorda
Inglese "house"
Solo in fin di parola

In realtà il visarga non è un carattere originario, ma solo un sostituto per la s o r finale.

Lezione Traslitteraz. Pronuncia
स् kas [kʌs]
पुनर् punar [pun̪ʌɽ]

 

Lezione Traslitteraz. Pronuncia Traduzione
: ka [kʌh] chi?
पुन: puna [pun̪ʌh] di nuovo

 

La pronuncia classica consiste in una fricativa glottale sorda [h] (come nell'inglese house). Nell'uso, tuttavia, il visarga viene pronunciato in diversi modi, spesso come una fricativa palatale [ç] o velare [x] (rispettivamente il ch tedesco di ich o il ch tedesco di Bach). Molti studenti fanno seguire al visarga un'eco appena accennata della vocale immediatamente precedente.

Vi sono dunque diverse possibili pronunce:

Lezione Traslitterazione Pronuncia Traduzione
राज: rāja [ɽaːɟʌh]
[ɽaːɟʌç]
[ɽaːɟʌx]
re
ANUSVĀRA E ANUNĀSIKA. NASALIZZAZIONE

 

Vi sono in sanscrito due distinti simboli di nasalizzazione: l'anusvāra e l'anunāsika.

DIACRITICO
Lezione Trascriz. Nome
lettera
Pronuncia

Descrizione

anusvāra [nasale] Nasale
È la consonante nasale (ṅ ñ ṇ n m) corrispondente all'ambito consonantico
anunāsika [˜] Nasalizzazione
Nasalizza la a precedente
Francese "tant"

L'anusvāra, che consiste in un punto posto al di sopra della vocale e viene indicata in traslitterazione come , fa sì che quella vocale sia seguita da una consonante nasale. Tale consonante è [m] in fin di parola e davanti alle fricative ś ṣ s e h. In altri ambiti consonantici può invece mutare lungo tutto lo spettro delle nasali:

ñ n m

Insomma, se la consonante seguente è una «dentale», allora l'anusvāra assume il timbro della nasale «dentale» n; se la consonante è una palatale, allora si pronuncia come la nasale palatale ñ, e così via.

Lezione Traslitterazione Pronuncia Traduzione
अलकार alakāra [ʌlʌŋkaːɽʌ] ornamento
kaja [kʌɲɟʌ] capello
वसुधरा vasudharā [ʋʌsud̪ʱʌɽaː] datrice di ricchezza [la terra]
नलप्रति nalaprati [nʌlʌmpɽʌt̪i] verso Nala
hasa [ɦʌmsʌ] cigno

L'anunāsika, anche detta candrabindu, «punto-luna», consiste in una mezzaluna posta al di sopra della vocale (generalmente a) o della semivocale (ya ra la va). Indicata in traslitterazione con una , fa sì che quella vocale o semivocali sia nasalizzata, analogamente come avviene in francese.

Lezione Traslitterazione Pronuncia Traduzione
au [au͂] sillaba sacra

 

 
DAṆḌA. LA PUNTEGGIATURA

 

La scrittura devanāgarī conosce, quale unico segno di punteggiatura, una linea verticale chiamata daṇḍa «bastoncino», paragonabile al nostro punto. Nella metrica, vi sono due tipi di daṇḍa, semplice e doppio: il primo indica la chiusura di una semistrofa, il secondo di una strofa.

PUNTEGGIATURA
Lezione Nome

Descrizione

daṇḍa Chiude una semistrofa
Chiude una strofa
SVARA. GLI ACCENTI

 

La parola sanscrita per indicare l'accento è svara. Il termine copre infatti un ampio campo semantico: dal significato generico di «voce, suono, rumore», è anche – come abbiamo visto – il termine utilizzato per «vocale» o «nota musicale».

In vedico l'accento era libero, cioè non determinato dal numero delle sillabe, e musicale, la sillaba accentata pronunciata in tono più alto. L'accento musicale sopravvisse almeno fino all'epoca di Pāṇini, ma in seguito fu sostituito dall'accento intensivo.

Gli accenti sono segnati solo nei Veda e nei testi coevi dei Brāhmaṇa, mentre nelle scuole europee si prese a leggere il sanscrito con accettatura più o meno fittizia, similmente a quella latina. In altre parole, è invalso l'uso di lasciar cadere l'accento sulla penultima sillaba se è lunga; se la penultima è breve, sulla terzultima; se anche la terzultima è breve, sulla quartultima.

I grammatici indiani distinguono vari tipi di svara.

Vi è l'udātta «elevato», che indica un'intonazione ascendente. La sua negazione è appunto l'anudātta «inelevato», cioè intonazione discendente. Lo svarita «quasi accento» è un accento misto dei due, che segue l'udātta. Si dice anudāttara «più che inelevato», l'anudātta che precede la sillaba udātta.

Le regole prosodiche sono molto complesse e vi è, al riguardo, una sofisticata nomenclatura sui modi e sui tempi di regolare l'accento nella recitazione. Le notazioni dei manoscritti sono a loro volta diversissime. Il Ṛgveda, ad esempio, non contrassegna la sillaba udātta, ma contrassegna l'anudātta e lo svarita rispettivamente con una barra sottoposta alla sillaba o con una lineetta posta in alto.

In altri casi, si nota con una lineetta orizzontale sottoposta l'anudāttara che precede l'udātta, e con una lineetta verticale sovrapposta lo svarita che segue l'udātta, così che la sillaba accentata si trova tra le due che la chiudono.

Nella traslitterazione occidentale, l'udātta viene contrassegnato da un accento acuto, lo svarita da un accento grave.

ACCENTO
Lezione Traslitt. Nome
accento

Descrizione

  anudātta Accento pretonico
Cade nella sillaba precedente la sillaba tonica
  ´ udātta Accento tonico
Cade sulla sillaba tonica
ˋ svarita Accento post-tonico
Cade sulla sillaba seguente la tonica o la successiva

Si noti tuttavia che o si usa l'udātta, o si usano l'anudāttara e lo svarita. Vediamo come funzionano questi due criteri di accentazione, prendendo ad esempio i versi iniziali del Ṛgveda [1: 1: -]:

Lezione Traslitterazione Traduzione

अ॒ग्निमी॑ळे पु॒रोहि॑तं

य॒ज्ञस्य॑ दे॒वमृ॒त्विज॑म् ।

 होता॑रं रत्न॒धात॑मम् ।।
 

agnímḻe puróhìtaṃ
yajñásyà devám ṛtvíjàm
hótraṃ ratnadhtàmam
Ad Agni rivolgo le mie lodi,
al sacerdote domestico del sacrificio,
all'invocatore che porta molte ricchezze.

 

Altri testi, utilizzano altri criteri. Ad esempio, nel Samadeva, gli accenti sono segnati con dei numerali: udātta, svarita e anudātta sono contrassegnati rispettivamente dai numeri 1, 2, 3 scritti sopra la lettera. Esiste una dozzina, almeno, di diversi modi di segnalare la prosodia.

Di norma, però, gli accenti non vengono segnati.

SĀṂKHYA. I NUMERALI

 

Il sistema di numerazione sanscrito è molto semplice, per la semplice ragione che è identico al nostro. Furono infatti i matematici indiani ad inventare il concetto di zero e la numerazione posizionale, che poi gli arabi adottarono e trasmisero in Europa.

NUMERALI
Lezione Equivalente Nome
numerale
0 śūnya
1 eka
2 dva
3 tri
4 catur
5 pañca
6 ṣaṣ
7 sapta
8 aṣṭa
9 nava
१० 10 daśa

Si noti la rassomiglianza dei nomi dei numerali indiani a quelli latini o italiani, essendo il sanscrito una lingua indoeuropea.

Il numero 2 viene usato nella scrittura per indicare iterazione o ripetizione di un termine:

Lezione Traslitterazione Pronuncia Traduzione
अहो aho aho [ʌɦo ʌɦo] oh oh!
AVAGRAHA. SEPARAZIONE

 

Un simbolo chiamato avagraha, «inelevato», serve a indicare, all'inizio di parola, la scomparsa (prodelisione) di una a breve iniziale.

DIACRITICO
Lezione Traslitt. Nome
accento

Descrizione

avagraha Separazione
Sostituisce la a breve iniziale

L'avagraha viene indicato in trascrizione con un apostrofo . Alcuni usano il segno . Ad esempio:

Lezione Traslitterazione Pronuncia Traduzione
सो वग्रहः so vagrahaḥ
so vagrahaḥ
[soʋʌgrʌɦʌh] quella separazione
LAGHAVA CIHNA. ABBREVIAZIONE

 

Un piccolo circolo all'altezza della linea, chiamato laghava cihna, «segno di brevità», indica un'abbreviazione. Si trova in genere in un contesto dove un nome viene ripetuto. Ad esempio, citando l'eroina dell'omonimo dramma di Kālidāsa o l'arcinoto grammatico indiano Pāṇini, si può trovare:

Lezione Traslitteraz.
शकु Śaku.
पा .

 

Lezione Traslitterazione Pronuncia
शकुन्तला Śakuntalā [ɕʌkunt̺ʌlaː]
पाणिनि Pāṇini [paːɳin̪i]

 

Tali abbreviazioni sono anche usate nelle declinazioni e coniugazioni, per non ripetere il tema della radice.

ALCUNE DIFFERENZE GRAFICHE

Alcune lettere possono presentarsi in due forme grafiche, una più antica, tipica del sanscrito classico, detta settentrionale o di Kalikātā (Calcutta); l'altra moderna, detta meridionale o di Mumbai (Bombay). La prima viene ancora utilizzata nel nord dell'India, mentre la seconda, più diffusa al sud, ha fornito lo standard moderno della scrittura.

In questa pagina abbiamo utilizzato la grafia moderna. Ma diamo ora uno sguardo alle sillabe graficamente differenti:

Forma classica     
Forma moderna क्ष
Traslitterazione a ā o au kṣa jha ṇa la

Anche alcuni numeri possono comparire nella forma più antica, come qui vediamo:

Forma classica    
Forma moderna
Traslitterazione 1 4 5 6 8 9
Bibliografia

 

  • AKLUJKAR Ashok. Corso di sanscrito. Hoepli, Milano 1992.
  • CARACCHI Pinuccia. Grammatica hindī. Magnanelli, Torino 1992.
  • COULSON Michael. Sanskrit. «Teach Yourself Books». Hodder and Stoughton, Sevenoaks 1976.
  • MASICA Colin. The Indo-Aryan Languages. Cambridge University Press, Cambridge 1991.
  • PIZZAGALLI Angelo Maria. Elementi di grammatica sanscrita. Hoepli, Milano 1935 [1995].
  • PONTILLO Tiziana. Sanscrito. Vallardi, 1993.
  • WHITNEY William Dwight. Sanskrit Grammar. Dover Publications, Dover 2003.
  • WIKNER Charles. A Practical Sanskrit Introductory. 1996. @EbookBrowse, 1196.