PRANAYAMA

PRANAYAMA, L'ARTE DEL CONTROLLO DEL RESPIRO - "Non ho dovuto prendere aria, essa è entrata in me dal momento in cui ho cominciato a sentire invece che pensare". (Frederick Leboyer)  

 

HATHA YOGA PRADIPIKA (sutra 2:1 - Svatmarama)

"Quindi, essendo stabilizzato nell'asana e avendo il controllo (del corpo), tenendo una dieta equilibrata, i pranayama dovrebbero essere praticati secondo le istruzioni del Guru".

 

 

Di solito il pranayama viene definito come controllo del respiro. Benché questa intepretazione possa apparire corretta dal punto di vista delle pratiche utilizzate, essa non rende appieno il significato del termine. La parola pranayama è formata da due radici: prana più ayama. Prana significa 'energia vitale' o 'forza della vita'. E' la forza che esiste in tutte le cose, sia animate che inanimate. Benché strettamente in relazione con l'aria che respiriamo, è più sottile dell'aria e dell'ossigeno. Perciò, pranayama non dovrebbe essere considerato soltanto un esercizio di respirazione con lo scopo di introdurre più ossigeno nei polmoni, in quanto utilizza la respirazione per influenzare il flusso di prana nelle nadi, o canali energetici, di pranamaya kosha, o corpo di energia. La parola yama significa 'controllo' ed è utilizzata per indicare varie regole o codici di comportamento. Tuttavia, questo non è il vocabolo unito a prana per formare pranayama, ma bensì la parola corretta è ayama che ha molte più implicazioni che yama. La parola ayama è definita come 'estensione' o 'espansione'. Quindi, la parola pranayama significa 'estensione o espansione della dimensione del prana'. Le tecniche di pranayama forniscono il metodo tramite il quale la forza vitale può essere attivata e regolata per andare oltre i confini o i limiti individuali normali ed ottenere uno stato più elevato di energia vibratoria.

  

Quattro aspetti del pranayama

Nelle pratiche di pranayama si utilizzano quattro aspetti importanti della respirazione. Essi sono:

1) Puraka o inspirazione

2) Antar o antaranga kumbhaka o ritenzione interna del respiro

3) Rechaka o espirazione

4) Bahir o bahiranga kumbhaka o ritenzione esterna del respiro

 

Antar e bahir kumbhaka, i due aspetti della ritenzione volontaria del pranayama vengono anche chiamati sahita kumbhaka.

  

 

 

Le differenti pratiche di pranayama includono varie tecniche che utilizzano questi quattro aspetti della respirazione.

 

 

C'è un altro aspetto del pranayama chiamato kevala kumbhaka o ritenzione spontanea del respiro. Questo è uno stato avanzato di pranayama che si presenta durante gli stadi superiori di meditazione. Durante questo stato, i polmoni interrompono la loro attività e la respirazione si ferma. In tale momento, il velo che impedisce all'individuo di vedere l'aspetto sottile dell'esperienza si solleva e si ottiene una più elevata visione della realtà.  

La parte più importante del pranayama è, in effetti, kumbhaka o ritenzione del respiro. Tuttavia, per praticare kumbhaka con successo, ci deve essere uno sviluppo graduale del controllo sulla funzione respiratoria. Perciò, nelle pratiche di pranayama, all'inizio è data maggior enfasi all'inspirazione e all'espirazione, per rinforzare i polmoni ed equilibrare il sistema nervoso e quello pranico in preparazione alla pratica di kumbhaka. Queste pratiche influenzano il flusso di prana nelle nadi, purificandole, regolandole e attivandole, inducendo così stabilità fisica e mentale. 

 

Le nadi

Secondo la visione indiana e più prettamente yogica, il corpo umano è attraversato da circa 72.000 canali trasportatori di energia che partono dalle dita dei piedi e delle mani, percorrono l'intero organismo e arrivano al cuore, centro della spiritualità, e da qui salgono sino al vertice del capo, centro di congiunzione tra il corpo fisico e l'universo circostante. Il complicato sistema delle nadi, una sorta di rete sottile di canali (in sanscrito nadi significa letteralmente "vena", "canale"), ha la funzione di collegare e convogliare le diverse energie vitali, attraverso le parti del corpo umano e i vari centri sottili (chakra) del corpo umano.

 

Il corpo pranico

Secondo la fisiologia yogica, la struttura umana è composta da cinque corpi o dimensioni che influiscono sui diversi aspetti dell'esistenza umana. Queste cinque dimensioni sono conosciute come:

1) Annamaya kosha, il corpo materiale o del cibo.

2) Manomaya kosha, il corpo mentale inferiore.

3) Pranamaya kosha, il corpo bioplasmatico o dell'energia vitale.

4) Vijnanamaya o vigyanamaya kosha, il corpo psichico o mentale superiore.

5) Anandamaya kosha, il corpo trascendentale o di beatitudine.  

 

Benché queste cinque dimensioni agiscano insieme per formare un'unità integrata, le pratiche di pranayama agiscono principalmente in pranamaya kosha. Pranamaya kosha, a sua volta, è formato da cinque  prana principali che, collettivamente, sono conosciuti come i pancha, o cinque, prana:

1) Prana

2) Apana

3) Samana

4) Udana

5) Vyana

Prana, in questo contesto, non si riferisce al prana cosmico ma piuttosto ad una specifica parte di pranamaya kosha che governa l'area tra la laringe e la sommità del diaframma. E' associato agli organi respiratori e della parola, all'esofago e ai muscoli e nervi che li attivano. E' la forza che attrae il respiro all'interno del corpo.

Apana è localizzato sotto la regione dell'ombelico e fornisce l'energia all'intestino crasso, ai reni, all'ano e ai genitali. E' collegato all'espulsione delle scorie dal corpo.

Samana è situato tra il cuore e l'ombelico. Attiva e controlla il sistema digestivo: fegato, intestino, pancreas, stomaco e le loro secrezioni. Samana attiva anche il cuore e il sistema circolatorio ed è responsabile dell'assimilazione e della distribuzione dei nutrienti.

Udana controlla l'area del corpo oltre il collo, attivando tutti i recettori sensoriali come occhi, naso e orecchie. Senza di esso non sarebbe possibile il pensiero e la coscienza del mondo esterno. Udana armonizza e attiva anche gli arti e tutti i muscoli, i legamenti, i nervi e le articolazioni ad essi associati, oltre ad essere responsabile della postura eretta del corpo.

Vyana pervade tutto il corpo, regolando e controllando tutti i movimenti e coordinando gli altri prana.

Insieme ai cinque prana principali ce ne sono cinque minori conosciuti come upa-prana. Questi cinque sub-prana sono:

1) Naga

2) Kurma

3) Krikara

4) Devadatta

5) Dhananjaya

Le loro funzioni sono le seguenti: naga è responsabile di eruttazioni e singhiozzo, kurma apre gli occhi e stimola il battito delle ciglia, krikara genera fame, sete, starnuti e tosse, devadatta induce il sonno e sbadigli, dhananjaya si attiva immediatamente dopo la morte ed è responsabile della decomposizione del corpo.

 

Prana e stile di vita

Lo stile di vita ha un impatto profondo su pranamaya kosha e i suoi prana. Le attività fisiche come esercizio, lavoro, sonno, assunzione di cibo e rapporti sessuali, tutte influiscono sulla distribuzione e il flusso del prana nel corpo. Le facoltà della mente come emozioni, pensieri e immaginazione influenzano il corpo pranico in modo ancora maggiore. Irregolarità nello stile di vita, sregolatezza alimentare e stress esauriscono e ostacolano il flusso pranico. Questo ha come conseguenza ciò che chiamiamo ' prosciugamento di energia'. L'esaurimento di energia in un determinato prana porta alla devitalizzazione degli organi e degli arti che esso governa e infine alla malattia o ad una disfunzione metabolica. Le tecniche di pranayama invertono questo processo, energizzando ed equilibrando i diversi prana interni in pranamaya kosha. In un programma integrato di yoga, le pratiche di pranayama dovrebbero seguire quelle di asana 

 

Perché respiriamo

Dato che respirare significa vivere, e viceversa, ci si può chiedere perché la vita sia così dipendente dal respiro, tanto da cessare quando il respiro diviene impossibile. Tutti sanno che non si può vivere senza aria, ma ben pochi sono in grado di spiegare perché ciò avviene. Ora, per comprendere come il pranayama può essere usato per la prevenzione e la cura delle malattie, è assai utile divenire consapevoli dei processi che si verificano nel corso della respirazione. Per cominciare dobbiamo distinguere tra "respiro" e "respirazione". Nell'uso comune questi due termini vengono spesso adoperati come sinonimi, ma in realtà "respirazione" è un termine più ampio. "Respiro" è l'atto fisico o meccanico, eseguito con l'ausilio di organi specializzati, mediante il quale l'aria, o più precisamente l'ossigeno che vi è nell'aria, penetra nel corpo, mentre l'aria, insieme con le impurità del corpo (quali anidride carbonica e acqua), viene espulsa dal corpo. "Respirazione", come termine di più ampio significato, comprende questa azione, ma anche i processi ulteriori di trasporto e distribuzione dell'ossigeno assorbito in ogni parte del corpo. Per quanto concerne l'uomo e gli animali superiori possiamo dire che vi è sia "respiro" sia "respirazione": ma nel caso delle piante, delle forme inferiori di vita e dei microorganismi, vi è soltanto "respirazione", poiché mancano gli organi del respiro. Un bambino appena nato incomincia a respirare subito dopo esser venuto alla luce, allorché i suoi polmoni si riempiono d'aria per la prima volta. Prima della nascita, nell'utero della madre, egli non respira, e tuttavia vi è una "respirazione": viene infatti fornito ossigeno ad ogni cellula del suo corpo mentre esso si sviluppa all'interno dell'utero.

Esaminiamo ora per quale motivo l'ossigeno è indispensabile alla vita. Ogni tessuto vivente, ogni cellula, richiedono, per poter vivere, un costante apporto di energia. Essere vivi significa sottostare a determinati processi biochimici: questi processi, che sono l'essenza della vita, non possono avvenire senza energia. L'energia è immagazzinata nelle molecole di certe sostanze, quali il glucosio, il fruttosio, gli acidi grassi e gli aminoacidi, molecole che sono il prodotto terminale dei processi di digestione delle sostanze che ingeriamo sotto forma di cibo. L'energia immagazzinata in queste molecole può venir liberata soltanto attraverso una reazione chimica (detta ossidazione) dei composti che contengono l'energia stessa, reazione che non può avvenire se manca l'ossigeno. In assenza di ossigeno il processo di liberazione dell'energia si arresta, e ciò significa la morte di quel tessuto. L'ossigeno è presente nell'atmosfera terrestre: al livello del mare vi è circa il 20% di ossigeno nell'aria.

Le cellule e i tessuti del nostro corpo non possono però utilizzare questo ossigeno direttamente dall'atmosfera: esso deve essere trasportato in ogni cellula e in ogni tessuto. L'importante compito di trasportare l'ossigeno in ogni infima parte del nostro corpo viene eseguito dal sangue: questa azione si chiama respirazione interna. È chiamata invece respirazione esterna l'operazione che consiste nel mettere in contatto l'ossigeno con il sangue: essa non è altro che il respiro. Può quindi essere chiamato respiro l'espressione esterna del processo di respirazione che avviene all'interno. Ecco dunque che, se il respiro si arresta, ogni cellula, ogni tessuto del corpo (i quali richiedono in continuazione ossigeno per i processi di ossidazione aventi per scopo la liberazione dell'energia immagazzinata nei carboidrati, nei grassi e nelle proteine), morirebbero per mancanza di ossigeno. La mancanza di ossigeno significa cessazione dell'ossidazione: questa a sua volta significa interruzione dell'energia necessaria ai processi biochimici della vita, la quale conduce inevitabilmente alla morte di quella cellula o di quel tessuto. Questo è il motivo per cui la vita dipende unicamente dal respiro. Questo, forse, fu il motivo per cui i nostri antenati usarono il termine prana per indicare tanto l'aria che respiriamo quanto l'essenza della vita, vale a dire l'anima. Ma, se è pur vero che il respiro è così essenziale per la vita, ci si può tuttavia chiedere se vi sia qualche vantaggio nel controllare il respiro: è questo il nostro prossimo problema.

 

 

 

Il pranayama è controllo del respiro

II pranayama può essere definito in termini semplici il controllo del respiro: la sua essenza consiste nel modificare i nostri processi normali di respirazione. La respirazione è quell'atto con il quale assumiamo aria dall'atmosfera per introdurla nei polmoni, assorbiamo ossigeno nel sangue dall'aria stessa ed espelliamo nuovamente l'aria nell'atmosfera unitamente ad anidride carbonica e vapore acqueo. Questa azione di inspirazione ed espirazione viene ripetuta ogni quattro o cinque secondi, sicché di norma noi effettuiamo circa quindici atti respiratori al minuto, immettendo ogni volta pressappoco 500 centimetri cubi di aria nei polmoni. Inspiriamo ed espiriamo quindi approssimativamente sette litri d'aria ogni minuto. Una qualsiasi modificazione di questo normale processo respiratorio non costituisce pranayama: infatti il modo normale di respirare si modifica in maniera evidente in determinate situazioni. Ad esempio, quando solleviamo o trasportiamo dei pesi, camminiamo in salita, corriamo, o facciamo dell'esercizio fisico, respiriamo più rapidamente ed energicamente. In alta montagna, dove l'atmosfera è rarefatta, il nostro respiro diviene pesante. Il modo di respirare si modifica anche in presenza di eccitazione emotiva, o in caso di disturbi quali asma, tubercolosi, bronchite e altre affezioni polmonari. In queste condizioni la modificazione del respiro si determina involontariamente, e magari inconsapevolmente, a meno che non si abbia difficoltà di respirazione. In realtà non siamo quasi i mai coscienti del fatto che stiamo respirando.

II pranayama consiste in una modificazione del respiro effettuata in modo deliberato e cosciente. Possiamo modificare il respiro in tre diversi modi:

1) Inspirando ed espirando rapidamente, con atti respiratori poco profondi.

2) Inspirando ed espirando lentamente, con atti respiratori lunghi e profondi.

3) Interrompendo del tutto l'atto respiratorio.

Il primo modo di modificare il respiro non viene solitamente incluso nel pranayama propriamente detto, sebbene talvolta sia strettamente collegato ad esso. Il secondo e il terzo modo sopra menzionati appartengono al pranayama: di fatto la pratica del pranayama può ben essere riassunta nei due modi suddetti. Affinché una modificazione del respiro possa essere considerata pranayama vi è ancora una condizione da soddisfare: si tratta della posizione del corpo. Vi è circa mezza dozzina di posture adatte allo scopo: esse sono chiamate posture meditative, dal momento che sono molto adatte per la meditazione. Fra di esse la più famosa è siddha-asana, mentre la più facile e comoda è svastika-asana: ma quella che tradizionalmente viene raccomandata più di ogni altra per il pranayama è padma-asana. Basti qui ricordare che il pranayama è definito da Patañjali come "una modificazione del respiro in una posizione seduta che sia immobile e comoda": tale postura è parte essenziale del pranayama.

Il pranayama è dunque un’azione complessa in cui l'adepto, dopo avere assunto una posizione adatta, inspira ed espira lentamente, profondamente e completamente, ed effettua anche arresti del respiro. L'inspirazione nel pranayama è chiamata puraka, che letteralmente significa "l’atto del riempire", l’espirazione è chiamata rechaka, che significa "l’atto del vuotare". La ritenzione del respiro è chiamata kumbhaka. Kumbha significa "vaso per l’acqua": proprio come un vaso per l'acqua contiene acqua quando ne viene riempito, così nel kumbhaka il respiro è trattenuto nei polmoni dopo averli riempiti. In realtà il kumbhaka può essere eseguito in due modi: si può trattenere il respiro dopo un puraka, oppure dopo un rechaka: La prima variante è maggiormente raccomandata nei testi tradizionali, essa è chiamata abhyantara-kumbhaka o antah-kumbhaka o antar-kumbhaka o antaranga-kumbhaka. La seconda variante del kumbhaka è chiamata bahya-kumbhaka o bahir-kumbhaka o bhairanga-kumbhaka.

Nei testi tradizionali i due termini pranayama e kumbhaka sono usati spesso come sinonimi: ciò può essere spiegato con il fatto che il kumbhaka e la parte più importante del pranayama. Su di un punto sembra esservi tra gli esperti divergenza di opinioni: se una respirazione modificata che non includa alcun kumbhaka possa essere considerata di per se un pranayama. Ad esempio, se si eseguono soltanto puraka e rechaka, si può dire che si sta praticando un pranayama? Alcuni autori, i quali sostengono che il kumbhaka è parte indispensabile del pranayama, insistono sul fatto che puraka e rechaka da soli non costituiscono pranayama. Vi sono pero altri autori che non sono d'accordo su questo modo di definire il pranayama.

 

Come ebbe origine il pranayama

Comunque si definisca il pranayama (vale a dire, che si ritenga o no il kumbhaka parte indispensabile di esso), una sua componente essenziale, sulla quale concordano tutte le definizioni, è che esso comporta un controllo del respiro. In sanscrito il respiro è chiamato prana. Prana significa anche "anima": il termine pranayama, però, non significa anima, ma respiro. L'associazione di questi due significati del termine prana è ovviamente molto stretta: vita e respiro sono congiunti. Quando un essere vivente muore, il respiro si ferma. Questa stretta associazione tra respiro e anima attrasse particolarmente l'attenzione degli antichi Arii, poiché essi credevano in un ciclo di rinascite finché l'anima perveniva alla definitiva liberazione (moksha o mukti). Questa credenza nella trasmigrazione delle anime è espressa molto chiaramente nei seguenti shloka della Bhagavadgita:

«Proprio come una persona getta via i vestiti vecchi e ne prende di nuovi, così anche l'anima, che risiede nel corpo, abbandona i vecchi corpi e ne assume di nuovi". (Gita: 11, 29)
"Chiunque è nato è certo di morire, e chi muore è certo di rinascere. Questo ciclo è inevitabile: perciò non c'è motivo di addolorarsene". (Gita: 11, 27)

L'osservazione che finché si respira si è vivi, e che quando il respiro si arresta la vita finisce, accompagnata dal convincimento che l'anima trasmigra di nascita in nascita, deve aver giocato un ruolo importante nelle idee iniziali riguardo al pranayama. Gli antichi scoprirono in primo luogo che, per conservare la vita, dobbiamo conservare il respiro, e che la conservazione del respiro comporta due cose: respirare lentamente, e quindi non respirare affatto (per un breve lasso di tempo). Questa idea fu ulteriormente rafforzata dalla credenza che la lunghezza della vita debba essere misurata non già in termini di tempo (giorni o anni), ma in base al numero di atti respiratori che ci sono assegnati in sorte. Dal fatto che l'arresto del respiro e la fine della vita coincidono, gli antichi concepirono probabilmente l'idea che, una volta esaurito il numero dei respiri assegnati dal destino, non era possibile continuare a vivere. Questa idea è espressa anche ai giorni nostri in frasi come "l'ultimo respiro", per indicare la morte.

L'idea che i respiri di ciascuno di noi sono contati, che la durata della nostra vita dipende dal numero dei nostri atti respiratori, e che - di conseguenza - dobbiamo ridurre il numero dei respiri (in una data unità di tempo), in modo da vivere più a lungo, ebbene: quest'idea fu responsabile dell'origine del pranayama. Troviamo questa idea espressa chiaramente in diversi passi degli antichi testi sul pranayama. Per esempio nella Goraksha-padhati (1,93) si dichiara:

"Per paura della morte perfino Brahma, il Signore della creazione, persevera nella pratica del pranayama, e così fanno molti yogin e muni. Si raccomanda perciò a colui che si dedica allo yoga di controllare sempre il proprio respiro".

Allo stesso modo la Hathayoga-pradîpika (11,39) afferma:

"Tutti quanti gli dèi, compreso il Signore Brahma, si dedicarono alla pratica del pranayama perché avevano paura della morte. Noi, che siamo mortali, dobbiamo seguire la medesima via e controllare il respiro".

  

È possibile che l'origine del pranayama, come appare dalle precedenti citazioni, sia stata influenzata dall'idea di dominare la morte attraverso il controllo del respiro, ma in seguito molti altri benefici divennero evidenti.

 

Perché si deve controllare il respiro

È facile osservare che, ogni qualvolta ci viene richiesto di compiere uno sforzo improvviso, come quando facciamo un salto in lungo o in alto, oppure solleviamo un grosso peso, o colpiamo un oggetto il più forte possibile, automaticamente arrestiamo il respiro. Il respiro si ferma anche quando si subisce uno shock improvviso o quando la mente è del tutto assorbita in qualcosa di interessante. Ciò mostra la relazione fra un'intensa attività fisica o mentale e il controllo del respiro. Tale controllo è posto in essere dai nostri centri nervosi che presiedono all'attività respiratoria. Nel pranayama controlliamo l'attività respiratoria mettendo in azione degli impulsi inibitori da parte del cervello. Ciò di cui ora ci occupiamo è semplicemente per quale motivo si deve controllare il respiro. È vero che per compiere varie attività della vita quotidiana non è affatto necessario controllare il respiro: questo infatti viene già controllato e modificato, secondo le necessità del corpo, da parte dei centri respiratori, senza che neppure ce ne rendiamo conto. Ad esempio, mentre riposiamo il respiro rallenta automaticamente; al contrario, quando vi è un'attività fisica che necessita di un aumentato apporto di ossigeno e di una più veloce rimozione dell'anidride carbonica, il respiro si fa automaticamente più rapido e profondo. Il controllo del respiro non è quindi richiesto per le usuali attività della vita quotidiana: esso viene invece intrapreso per un'altra ragione, che interessa noi tutti. Uno dei presupposti basilari dello Yoga è che il respiro (prana) e la mente (chitta) non sono separati o indipendenti l'uno dall'altra. In realtà essi sono considerati due diverse espressioni di un'unica entità fondamentale. Essi sono interdipendenti: operano insieme e insieme cessano di operare. Noi usiamo costantemente ambedue le entità, vale a dire il respiro e la mente. Il respiro è importante, perché da esso dipende la nostra esistenza. La mente è importante, perché tutto quello che è necessario per il successo nella vita, cioè piacere, felicità, gioia, le nostre relazioni con il mondo, le nostre reazioni a ciò che accade attorno a noi, tutto dipende dalla mente. Se la mente è ben allenata, in pace e piena di gioia, vale a dire sotto controllo, allora la vita diviene fruttuosa.

Questo fatto è espresso in modo molto chiaro nella Katha-Upanishad (l,iii,3-6), la quale così afferma:

"L'anima è simile ad un viaggiatore che ha intrapreso il viaggio della vita per mezzo del carro del corpo, guidato dall'intelletto (buddhi), che ha per redini la mente e per cavalli gli organi di senso. Gli oggetti dell'esperienza costituiscono la via che deve essere percorsa. L'anima, i sensi e la mente, tutti insieme, formano colui che prova gioia o dolore, cioè l'individuo. Se la mente non è adeguatamente controllata, allora i sensi sfuggono di mano come cavalli indocili. Ma se la mente è controllata come si deve (yukta), allora i sensi obbediscono agli ordini del loro signore, cioè l'individuo, come cavalli ben domati: una tale persona, in verità, raggiunge la meta più alta della vita".

Il controllo della mente, per quanto sia essenziale per il successo nella vita, è una delle cose più difficili da raggiungere. Siamo tutti consapevoli del fatto che, se controllassimo le nostre menti, potremmo rendere la nostra vita più felice, e quindi assai più piacevole per noi stessi e per gli altri: ci troviamo però privi di un aiuto. Ed è a questo punto che ci soccorre il pranayama. Gli antichi maestri di yoga sapevano che, se pure è difficile controllare la mente in modo diretto, essa può essere controllata mediante il controllo del respiro. Essi affermarono ciò più volte nei testi di yoga. Ad esempio, lo Yogavasistha (V,78,46) afferma:

"Quando, attraverso la pratica continua del pranayama, le vibrazioni del respiro sono messe a tacere, ciò fa sì che anche la mente divenga del tutto silenziosa. È questa la condizione di nirvana".

Lo stesso punto di vista è espresso nella Hathayoga-pradipika (IV,23), dove si dice:

"Qualora la mente sia completamente assorbita, anche il respiro è reso silenzioso, e viceversa".

L'Annapurna-Upanishad fa un passo ulteriore nel chiarire questo punto. Essa mette l'accento sull'unità della mente e del respiro, e in tal modo sottolinea l'importanza del pranayama per il controllo della mente (11,89):

"Le vibrazioni che si producono nel respiro dell'aria (pavana) sono le stesse vibrazioni della mente. Così i saggi si sforzano di controllare le vibrazioni del respiro".

Si potrebbero citare diversi altri passi di antichi testi che attestano l'importanza del pranayama nell'acquietare la mente. Ma non c'è bisogno di molte citazioni. Questo punto di vista può ben essere riassunto nella seguente affermazione della Annapurna-Upanishad (11,44):

"Gli yogin controllano il respiro per ottenere la pace della mente (chittashanti)".

Si potrebbe osservare che non siamo tutti degli yogin, e che quindi il pranayama non è utile a una persona qualsiasi. Questo però non è vero, perché ciascuno di noi ha bisogno di pace mentale, e se questa può essere ottenuta attraverso il pranayama, allora esso è certamente utile a tutti.

Ciò non significa che la pace della mente sia l'unico scopo per il quale si pratica il pranayama. In realtà è una meta piuttosto lontana, anche se ne è stata ampiamente sottolineata l'importanza nella panoramica tradizionale sul pranayama. Vi sono mete più vicine e più facilmente raggiungibili, quali il mantenimento e il recupero della salute, un efficiente funzionamento dei vari apparati del corpo, specialmente il sistema respiratorio, la cura di malattie come l'asma, l'ipertensione, il diabete, ecc. 

 

Che cosa può fare per noi il pranayama

È di fondamentale importanza, per chiunque sia interessato ad apprendere e a praticare il pranayama, sapere che cosa esso può o non può fare. Ad esempio, si deve comprendere che non tutte le malattie possono essere curate con il pranayama; allo stesso modo esso non è egualmente utile a tutti. Vi sono determinate condizioni verificandosi le quali il pranayama non può e non deve essere praticato. È altresì necessario sapere in che modo il pranayama agisce, così da evitare ogni possibile pericolo presente nella pratica. Lo studente che vuole apprendere il pranayama e continuare a praticarlo deve avere le idee chiare sulla sfera d'azione e sui limiti del pranayama stesso. Come parte dello yoga, il pranayama si dovrebbe di norma praticare insieme alle altre parti, cioè gli asana e la meditazione. Questa pratica completa dà migliori risultati, in special modo nella prevenzione e nella cura delle malattie.

 

Come prepararsi al pranayama

Per apprendere una tecnica o un'arte è molto importante disporre di un insegnante esperto. I libri possono fornire molte utili indicazioni, ma, quando si vuole effettivamente passare alla pratica, le indicazioni tratte dai libri non sono sufficienti. Ad esempio, se uno vuole imparare a guidare l'automobile, a nuotare, a dipingere, oppure a suonare uno strumento musicale, è essenziale ricevere istruzioni da qualcuno che sappia ciò che si deve o non si deve fare. Questa persona deve fornire informazioni affidabili e deve avere una certa motivazione per l'insegnamento. Fino a qualche anno fa non era facile trovare un insegnante di pranayama capace ed esperto, ma ciò non costituiva un grosso problema, perché anche il numero degli studenti era estremamente piccolo. Oggi, con l'accrescersi dell'interesse per il pranayama, si è accresciuto anche il numero degli istruttori, sebbene l'insegnamento lasci ancora molto a desiderare. Benché vi siano molti istituti e centri per l'insegnamento, non si è ancora sviluppato uno standard comune riguardo alle norme e alle procedure. Coloro che hanno avuto successo nel raccogliere seguaci e denaro hanno poco riguardo per gli altri che operano nel loro stesso campo. È curioso vedere come gli insegnanti affermati mostrino spesso la tendenza a procedere da soli e lottino per lasciare un'impronta personale, coniando nuove denominazioni per determinate tecniche. Basta dare un'occhiata ad un qualsiasi articolo delle numerose riviste di yoga per rendersi conto di come tali persone si preoccupino in modo eccessivo della propria immagine, delle proprie idee, di ciò che essi apprezzano o disapprovano. Nelle scienze affermate, come la medicina, la fisica, l'ingegneria o la psicologia, non avviene nulla del genere, e l'opinione del singolo individuo come tale ha scarsa importanza: ciò che veramente conta è l'esistenza di una prova imparziale e verificabile, la quale faccia da supporto a una qualsiasi opinione particolare. Nello yoga la situazione è molto diversa: qui ogni opinione, idea, o credenza è fortemente personalizzata. Questa situazione è però destinata a mutare, in quanto un crescente numero di persone di formazione scientifica è attratto dallo yoga in generale e dal pranayama in particolare. Affinché quest'ultimo possa svilupparsi come una scienza impersonale universalmente applicabile, è necessario che la gente abbandoni l'atteggiamento immaturo (che la porta a rafforzare le tendenze egoistiche e monopolistiche dei cosiddetti guru, seguendoli ciecamente) e impari a basarsi su prove verificabili piuttosto che su invenzioni altisonanti. Da principio, tuttavia, è difficile per uno studente riconoscere i buoni maestri da quelli che non lo sono. Coloro che parlano troppo, che approfittano della credulità altrui, che sono troppo severi o superficiali, non sono buoni maestri di yoga. Allo stesso modo bisogna evitare quelli che sono avidi di denaro e di popolarità a buon mercato. Un buon insegnante di yoga è modesto nei suoi rapporti con il prossimo, pronto ad insegnare agli altri, e non vanta capacità esagerate. Il buon maestro di yoga sa essere umile e serio, ha una solida preparazione culturale e scientifica di base, ed è consapevole dei propri limiti. Altre sue capacità saranno: una profonda conoscenza dei testi tradizionali e la capacità di spiegare ciò che in essi è implicito o sottinteso. Avrà fiducia nello yoga, ma non una fiducia cieca, e sarà desideroso di trasmettere agli altri ciò che sa, ma senza immettervi il proprio ego. Coloro che parlano troppo di sé e dei propri guru devono essere evitati: ci si deve reputare fortunati se si ha un maestro di pranayama avveduto ed esperto, perché tali insegnanti non sono molto comuni.

 

 

Qualità dell'allievo

Abbiamo parlato a lungo dell'istruttore di pranayama, ma che dire dell'allievo? Quali sono le qualità che deve possedere? Il pranayama è adatto a tutti? Sono queste alcune delle domande che deve porsi chi si accinge a studiare il pranayama. Per quanto riguarda le qualità che si richiedono all'allievo, c'è da dire che esse dipendono dall'obbiettivo che questi si pone, vale a dire fino a che punto egli intende progredire nella pratica. Per colui che vuole praticare il pranayama come parte di un sadhana spirituale, con lo scopo di raggiungere il samadhi o il risveglio dell'energia di Kundalini, è essenziale un interesse sincero e profondo, spirito indagatore, pazienza e capacità di lavorare in modo rigoroso. A un tale allievo si richiederanno il celibato, il controllo della dieta e una stretta disciplina del corpo e della mente. La maggior parte degli studenti di pranayama non è però interessata a tali mete, in quanto non ha né il tempo né la volontà di spingersi così lontano. Se lo scopo è semplicemente quello di conservare o recuperare la salute, le qualità che abbiamo elencato in precedenza non sono indispensabili. Chiunque si accosta allo studio del pranayama deve però avere la volontà di apprendere le tecniche e gli elementi fondamentali, indipendentemente dal fatto che il suo interesse sia limitato oppure profondo. Comprendere chiaramente è necessario per ogni studente: un approccio casuale non potrebbe dare buoni risultati. Le persone che soffrono di malattie, quali l'asma e il diabete, che si prestano ad essere curate con il pranayama, iniziano spesso a praticare con grande entusiasmo e interesse, ma in seguito tale entusiasmo svanisce, e subentra la discontinuità. Questo non dovrebbe accadere, perché la mancanza di impegno non porta a buoni risultati. Se ci si accosta per la prima volta alla pratica del pranayama, è bene iniziare ad esercitarsi quando si è in un normale stato di salute. Se si è indisposti o convalescenti, oppure molto deboli, è bene rimandare la prima seduta fino a quando non ci si è rimessi completamente, e ciò è opportuno anche quando si inizia il pranayama con l'intenzione di liberarsi di qualche disturbo. Ad esempio, pur avendo efficacia terapeutica nei confronti dell'asma, il pranayama non deve essere praticato quando sopravviene un attacco. Il pranayama è un esercizio di tipo particolare, ed esige che non ci si sforzi quando ci si trova in uno stato di indisposizione. Se uno è troppo stanco, dopo uno sforzo fisico o mentale, allora, prima di praticare, occorre riposarsi. Allo stesso modo è necessaria una pausa di riposo dopo un esercizio fisico faticoso, come il nuoto o la lotta. Inoltre il pranayama non deve essere praticato quando si è affamati, o subito dopo i pasti. Allo stesso modo, se uno è rimasto a lungo senza dormire, è meglio che rinvii la seduta fino a quando non si sia riposato. Si sente chiedere spesso se è indispensabile prendere un bagno prima del pranayama. Nella mente di molte persone il bagno è associato a pratiche religiose, e il pranayama non disdegna tali pratiche: ma in realtà non c'è connessione tra le due cose. È pur vero che dopo il bagno si ha la mente fresca e il corpo pulito, e ciò giova al pranayama, ma non si tratta di una prescrizione assoluta. In breve: durante la pratica è opportuno trovarsi in uno stato normale: se questa condizione è soddisfatta, si può dire che quasi tutte le persone sono adatte a praticare il pranayama.

A quale età si può cominciare?

Come qualsiasi altra arte, il pranayama può essere iniziato in qualunque periodo della vita. Ma qual'è l'età migliore? Una risposta generale è la seguente: prima è, meglio è. All'età di otto/dieci anni si può cominciare a praticare il respiro profondo, con moderazione. Gli adulti possono cominciare a qualsiasi età: un limite non esiste. Il pranayama fornisce uno dei migliori strumenti di prevenzione delle malattie, quali asma, artrite, diabete e disturbi del tratto digerente. Chi è soggetto a tali disturbi dovrebbe apprendere la tecnica del pranayama il più presto possibile, per ottenere i migliori risultati: il detto “meglio tardi che mai” è comunque validissimo se riferito al pranayama.  

 

Per entrambi i sessi

II pranayama è ugualmente utile agli uomini e alle donne: si può anzi affermare che è perfino più utile alle donne, perché, in confronto agli uomini, esse hanno meno opportunità di fare un regolare esercizio fisico. Di solito le loro attività si svolgono nell'ambito della casa, e di conseguenza le donne sono più soggette a disturbi dovuti a vita sedentaria. Gli esercizi che riguardano l'addome e la zona pelvica sono di gran lunga più importanti per le donne che per gli uomini: il pranayama, infatti, sollecita queste parti del corpo, aiuta a rimuovere la congestione sanguigna e tonifica i muscoli. Ha quindi una grande efficacia terapeutica sui disturbi del ciclo mestruale, sulla posizione dell'utero e per la preparazione al parto. È auspicabile che le donne pratichino il pranayama: infatti, se una donna comprende l'importanza di questa tecnica e si dedica al suo apprendimento, tutta la sua famiglia finirà col risentirne un effetto benefico.


Ambiente e scelta del luogo adatto

Gli antichi testi abbondano di riferimenti alla scelta dell'ambiente adatto per la pratica dello yoga esoterico, che comprende pranayama e dhyana. Sebbene oggigiorno ciò non abbia importanza per la maggior parte di noi, può essere tuttavia interessante sapere quali prescrizioni venivano date. Allo studente di pranayama si raccomandava che dimorasse in una regione dal governo stabile, retta da un re di animo pio e abitata da una popolazione osservante delle pratiche religiose. Non doveva esservi timore di invasioni, né disturbo da parte di animali feroci, ladri, malintenzionati, insetti, epidemie o calamità naturali, come tempeste di vento o inondazioni. Si consigliava poi di sottomettersi alla diretta supervisione di un guru in un luogo appartato, inserito in un ambiente gradevole, dove fosse facile soddisfare le esigenze di cibo, abitazione e tranquillità di spirito. Alcune di queste esigenze sono sentite come tali anche dagli studenti moderni: ad esempio, la pratica del pranayama richiede un luogo tranquillo, pulito, aerato, al riparo dalla curiosità altrui, dove il disturbo dovuto al rumore o ad altri fattori sia ridotto al minimo. Il posto migliore per lo studente moderno è la propria abitazione, purché le esigenze suddette siano soddisfatte. Talvolta può essere piacevole praticare il pranayama in un luogo ameno, sulla riva di un fiume, in un parco o in un tempio. Nelle grandi città, dove gli alloggi sono piccoli e solitamente affollati, il pranayama può essere praticato in gruppo in grandi sale appartenenti a scuole o ad altre istituzioni, ma la pratica individuale a casa propria, quando è possibile, deve essere preferita. Anche all'inizio della pratica, quando l'apprendimento avviene presso una scuola, è bene esercitarsi poi individualmente. Una volta che le tecniche siano state apprese in modo corretto e si sia diventati abbastanza esperti, è irrilevante che l'esercizio quotidiano sia eseguito a scuola, a casa propria, oppure all'aperto. Quando si è in viaggio, anche uno scompartimento ferroviario oppure un aereo dotato di comodi sedili si possono considerare accettabili per il pranayama.

Che cosa indossare durante il pranayama

Dipende dal clima, dalle norme sociali e dalle preferenze individuali. Se si pratica all'aperto, l'abito deve essere sufficiente a proteggere il corpo dal freddo. Nella bella stagione, se si pratica al chiuso, può bastare la biancheria intima. Con il caldo estivo, tutto quanto occorre è uno slip o un semplice perizoma. In ogni caso il corpo non deve essere troppo coperto, ne troppo poco (in relazione alla temperatura dell'ambiente), ne si deve provare fastidio a causa di indumenti troppo stretti o pesanti, quando si assume un asana per tutto il tempo dedicato al pranayama. Quando si pratica in gruppo, in una scuola di yoga, è auspicabile una tenuta eguale per tutti.



Quando praticare il pranayama: durata della seduta

II pranayama può essere praticato una volta al giorno, al mattino o alla sera. Di sera, dopo il lavoro della giornata, la mente è rilassata, le articolazioni e i muscoli non sono duri, perché sono stati sollecitati durante i vari movimenti della vita quotidiana. Alla sera, quindi, è più facile assumere una postura per il pranayama e mantenerla restando immobili per il tempo richiesto. Al mattino, invece, le giunture sono piuttosto rigide, ma si possono rendere più trattabili per mezzo di qualche esercizio di riscaldamento. Alla sera, può capitare di avere ospiti o di dover uscire, mentre al mattino si è meno disturbati; perciò, dal punto di vista della regolarità, il mattino è il momento migliore. C'è poi un'altra considerazione, secondo la quale il mattino è più adatto per la pratica del pranayama. Un'importante prescrizione vuole che lo stomaco sia sgombro durante gli esercizi. Infatti, nel corso di ogni ciclo respiratorio del pranayama, si verificano considerevoli variazioni di pressione all'interno della cavità toracica e di quella addominale e, se lo stomaco fosse pieno, interferirebbe con queste modificazioni. Al mattino, prima di colazione, lo stomaco è pressoché vuoto, invece alla sera non è così, e ciò può causare irregolarità nella pratica. Affinché lo stomaco sia vuoto bisogna aspettare due ore dopo la colazione e quattro ore dopo i pasti principali. Dopo una tazza di the bisogna lasciar passare circa mezz'ora prima di poter praticare gli esercizi. Per quanto riguarda la durata della seduta, in genere sono sufficienti venti minuti. Nei giorni in cui si è molto occupati o pressati dal lavoro è meglio ridurre la seduta a dieci minuti, piuttosto che saltarla del tutto.

Dieta e abitudini alimentari

È necessario essere vegetariani per praticare il pranayama? Questa domanda viene posta molto seriamente da parecchi allievi; ma una risposta fissa non esiste, e le opinioni dei maestri differiscono alquanto su questo punto. Da un lato, infatti, vi sono quelli che affermano che l'allievo dovrebbe smettere perfino di prendere the o caffè, per non parlare della carne e del pesce. All'estremo opposto vi sono alcuni guru moderni, i quali affermano che non sono necessario restrizioni della dieta ne della vita sessuale. La verità sembra collocarsi a metà strada fra questi estremi. Il problema “dieta” si può suddividere in due parti: a) che cosa mangiare; b) che cosa non mangiare. Riguardo alla seconda parte vi è, come si è già detto, una grande varietà di opinioni. Sulla prima parte, invece, i pareri sono concordi: si dice, infatti, che la dieta dello studente di pranayama deve essere sattvika. Secondo la filosofia yoga tutto ciò che esiste nell'universo è un misto, in varie proporzioni, di tre tendenze basilari, chiamate guna. Questi guna sono denominati rispettivamente sattva, rajas e tamas. Sattva significa leggerezza, pulizia, luminosità, piacere, felicità, comprensione, conoscenza, pace, giustizia, e così via. Rajas rappresenta l'attività, la mobilità, l'eccitamento, l'invidia, la collera, e simili. Tamas si manifesta in forma di pesantezza, inerzia, pigrizia, mancanza di movimento, dolore, oscurità e ignoranza. Tutti gli alimenti sono ripartiti in tre gruppi. Alcuni sono sattvika, con prevalenza del sattva, altri rajasika (prevalenza del rajas); quelli infine in cui prevalgono gli effetti del tamas sono denominati tamasika. Nella Bhagavadgita vi è una dettagliata descrizione dei tre guna e delle loro manifestazioni. Fra i cibi sattvika troviamo latte bovino, burro chiarificato, riso, orzo, miele, frutta, noci di cocco, datteri, e alcune verdure: allo studente di pranayama si raccomanda di assumere solo cibi sattvika. Carne, pesce, uova, vino, cipolle, aglio, spezie e peperoncino sono considerati rajasika, di conseguenza non dovrebbero far parte della dieta di una persona sattvika. Questa opinione sulla dieta yogica, tradizionalmente assai diffusa, può essere valida solo in un senso molto generale: forse è vera solo in alcuni casi estremi. In verità non c'è un rapporto stretto fra quello che uno mangia e quello che uno fa o pensa, altrimenti sarebbe possibile convenire in galantuomini i criminali che si trovano nelle prigioni, semplicemente nutrendoli con alimenti sattvika! II problema del vegetarianesimo ha due aspetti: uno dietetico, e uno emozionale o etico. I sostenitori del vegetarianesimo spesso tralasciano di distinguere fra i due aspetti della questione, e ciò ha dato origine ad una certa confusione riguardo al problema. è molto importante notare che le considerazioni dietetiche sono ben diverse da quelle di carattere etico. Naturalmente una soluzione valida tanto sul piano dietetico quanto su quello etico sarebbe l'optimum: ma una tale soluzione unica, valida per tutte le persone, non esiste, perché le esigenze nutrizionali differiscono grandemente da persona a persona. Non è possibile prescrivere lo stesso tipo di dieta a ragazzi nell'età della crescita, a persone convalescenti, a madri che allattano, ad atleti, a coloro che fanno un lavoro sedentario e a quelli che fanno invece un lavoro pesante. Gli studenti di pranayama possono appartenere indifferentemente ad uno qualsiasi di questi gruppi: affermare che essi devono mangiare solo cibi sattvika strettamente vegetariani significherebbe fissare una regola troppo rigida e non necessaria. Allorché gli antichi testi prescrissero tale regola, essa era destinata a coloro che avevano abbandonato la casa e il lavoro per dedicare la propria vita unicamente ad uno studio approfondito del pranayama e del dhyana. Gli antichi testi non sbagliano nelle loro prescrizioni dietetiche, ma sbaglieremmo noi per certo se applicassimo tali prescrizioni in maniera indiscriminata a qualsiasi persona: molti di noi, che si accostano alla pratica del pranayama, devono fare anche la loro parte, nella famiglia e nella società. Dal punto di vista etico il problema non è “che cosa si deve o non si deve mangiare”: si tratta invece di vedere se è lecito uccidere per ottenere il cibo. Questa è una scelta che non riguarda la dietetica, ma dipende dalle norme etiche che si vogliono seguire. Sicuramente non ci può essere, a questo proposito, una regola fissa, valida per qualsiasi persona in qualsiasi tempo: una tale regola può essere prescritta solo agli allievi progrediti, come fu fatto dagli antichi testi, ma non può essere applicata a tutti in maniera indiscriminata.

Qual'è dunque la migliore dieta per lo studente ordinario? Un utile consiglio, valido per tutti, si trova nella Hathayoga-pradipika (I,63). Questo testo sottolinea l'importanza del cosiddetto mitahara o dieta bilanciata, ed afferma:

La dieta deve contenere tutte le sostanze nutritizie necessario, deve essere gustosa, deve comprendere latte e latticini a sufficienza, e deve apportare nutrimento a tutti gli organi del corpo. Una tale dieta deve essere gradevole. Soprattutto deve giovare allo scopo che ci si propone”.

L'ultima tra le caratteristiche elencate, per la quale il testo usa il termine yogya (che significa, adatto, utile o appropriato), rende lecita una grande varietà di alimenti, vegetariani e non, a seconda del ruolo che uno svolge nella vita. Possiamo ora dare alcuni suggerimenti d'ordine generale sulla dieta. È sempre buona norma evitare cibi e bevande che provochino disturbi o che non siano adatti alla propria costituzione. Ciò che va bene per una persona può non andare bene per un'altra. Bisogna poi sempre evitare di mangiare in modo eccessivo o troppo di frequente. Ciò che pensiamo o facciamo è più importante di quello che mangiamo o non mangiamo: astenersi dal vino, o dalla carne, o perfino dal the e dal caffé non ha in sé alcun valore. È molto importante includere nella dieta verdure crude, come carote, ravanelli, cipolle, cavolo, cetriolo, germogli crudi o cotti. Frutta e latte costituiranno la parte più gradevole e utile della dieta: questa deve fornire un apporto sufficiente ma non eccessivo di calorie. Occorre moderarsi nei fritti. Non è necessario rinunciare ad un particolare alimento, ma qualsiasi eccesso deve essere evitato. È poi utilissimo per la salute digiunare di tanto in tanto (ad esempio saltare un pasto una volta alla settimana) o seguire una dieta liquida. Queste indicazioni riguardano le persone con una salute normale: in presenza di disturbi la dieta deve essere regolata in modo più accurato.

Pranayama e altre attività

II pranayama è un esercizio respiratorio, ma è possibile che lo studente di pranayama si dedichi anche ad esercizi di altro genere, e non è necessario che vi rinunci. Se questi esercizi comportano molta attività fisica, come giochi all'aperto, corsa, nuoto, o surya-namaskara (“saluto al sole”, esercizio molto popolare in India), allora il pranayama a deve essere praticato dopo tali esercizi, facendo una pausa di almeno dieci minuti, in modo che il respiro ritorni normale. Il pranayama consiste in atti respiratori lenti e profondi, e in ritenzioni del respiro: non deve quindi mai essere associato ad un'attività fisica impegnativa che richieda una respirazione rapida. Nelle attività che comportano sforzo e velocità di esecuzione accade di trattenere momentaneamente il respiro, ad esempio quando si solleva o si lancia un oggetto pesante, oppure quando si spicca un salto: ma questi, ovviamente, non sono esempi di pranayama. Molti studenti di pranayama praticano anche gli asana, unitamente ad esercizi impegnativi. In tal caso l'esercizio più energico deve essere eseguito per primo; seguono gli asana, infine si pratica il pranayama. Se si pratica anche il dhyana (meditazione), esso deve seguire il pranayama, in quanto quest'ultimo prepara il corpo e la mente alla meditazione. Un esercizio gradevole e non impegnativo, come una passeggiata, può indifferentemente precedere o seguire il pranayama. Quando si cammina, come quando si eseguono gli asana, il respiro non deve essere deliberatamente controllato.

Costanza nella pratica

II pranayama, come qualsiasi altra arte, produce risultati soddisfacenti soltanto con una pratica regolare. Molte persone, avendolo intrapreso un po' per caso, da principio lo praticano regolarmente per un certo tempo, ma poi si fa strada la discontinuità. Può seguire allora una lunga interruzione, durante la quale i benefici, se ve ne sono stati, vanno perduti, e allora la pratica viene interrotta definitivamente. Se una persona invece diviene consapevole dell'importanza e dell'utilità del pranayama, questo deve diventare parte integrante della routine quotidiana. Esigenze di lavoro, un viaggio, oppure un'indisposizione possono provocare interruzioni nella pratica: per superare queste difficoltà bisogna avere fermezza di spirito ed una sorta di fede o devozione. La pigrizia è spesso una causa importante di discontinuità, ed anche la mancanza di pazienza è un altro fattore da evitare. Quando si verifica un'interruzione dovuta ad una causa inevitabile, è bene ricordarsi che la pratica deve essere ripresa il più presto possibile. Se si pratica il pranayama da soli a casa propria, è necessaria una forza di volontà ancora maggiore per superare i fattori disturbanti; se invece si fa parte di una classe o di un gruppo, l'influenza degli altri aiuta a perseverare in una pratica regolare. L'ideale sarebbe praticare il pranayama ogni giorno, senza interruzioni: una pratica così assidua non è tuttavia indispensabile. Un solo giorno di “vacanza” alla settimana non compromette in alcun modo i benefici degli esercizi, ma un'interruzione di due giorni nella stessa settimana è accettabile solo se si verifica occasionalmente. È buona norma stabilire di non saltare la seduta di pranayama, a meno che non vi sia un impedimento inevitabile: si dovrebbe sempre cercare di effettuare la seduta, eventualmente accorciandone la durata, se necessario.

 

 

Bibliografia: Asana - Pranayama - Mudra - Bandha (Swami Satyananda Saraswati).

Pranayama, lo yoga del respiro (K.S. Joshi).